Home Relazioni Coltiviamo la solitudine e impariamo ad appartenere a noi stessi

Coltiviamo la solitudine e impariamo ad appartenere a noi stessi

Si spende molto tempo, troppo, a parlare delle relazioni, di tutti i tipi: familiari, coniugali, lavorative, occasionali. Siamo sempre più community (per riprendere il gergo dei nuovi social network) e, forse, meno noi stessi. Abbiamo una necessità, a tratti compulsiva, di sentirci inseriti perfettamente in ogni contesto.

Il tessuto sociale odierno è un diorama le cui regole del gioco sono stabilite dal conformismo più agghiacciante, che porta ad omologazione spietata, ad appiattire le svariate personalità in etichette che raccontano di noi. Siamo tag, hashtag e consensi.

Bene. Al contrario, essere un po meno protagonisti e la sola idea di vederci per un attimo appartati in un angolo, in pausa; non essere al passo coi tempi, inseriti nei ruoli e nelle tempistiche che la società ci impone, ci fa sentire terribilmente soli, vuoti.

Il problema principale non è quello di voler appartenere a tali dinamiche, bensì di sentirsi persi, qualora, per qualsiasi motivo accidentale, ci si allontani da esse. E così via, il dramma. A parlare di solitudine e le conseguenti accezioni negative che ne derivano: alienazione, frustrazione, disadattamento, tristezza, e via di seguito. In fondo, ci siamo mai chiesti cosa sia la solitudine? E, soprattutto, abbiamo mai pensato che, a volte, tutta questa corsa sociale ci renda davvero soli, e inadatti a praticare la relazione più importante di tutte: quella con noi stessi? Viviamo tra la gente e con la gente, ma è sacrosanto, talvolta, vivere con noi stessi.

Per provare ad emanciparci dal concetto stagnante di solitudine, intesa comunemente e solamente come status di negatività, basti pensare a come la prolissità del vocabolario inglese sia riuscita, invece, a conferire alla stessa un vero inno alla vita. Gli anglofoni sono soliti distinguere tra solitude e loneliness. Quest’ultima rappresenta uno status negativo, frutto di un vero disagio, con retroscena psicologici che non stiamo qui ad analizzare, che causano vere problematiche relazionali, che possono essere limitanti per l’individuo. Intesa come una realtà negativa, assolutamente presente ma tuttavia non totalizzante. Infatti, dall’altro lato, si parla di solitude, laddove si è perfettamente in grado di stare soli, con se stessi e scegliere come scandire i propri ritmi. E’ questa solitudine sana che tocca promuovere. Coltivandola possiamo conoscere chi siamo, giungere ad importanti consapevolezze.

La solitudine, non è del tutto nemica alla società fino ad ora descritta, ne è il complemento, l’altra faccia della medaglia. Se si vuole vivere oltre le apparenze, bisogna capire che possiamo davvero scegliere di relazionarci con gli altri e gestire al meglio le  regole del gioco sociale, solo se apparteniamo davvero a noi stessi. E’ questo che la solitudine può insegnarci: mantenere dentro di noi quel porto sicuro leggermente immutevole, rifugiarsi in una nostra certezza anche se il mondo, fuori cambia. Perchè, si, le cose lì fuori cambiano, inesorabilmente, e se impariamo a coltivare noi stessi impariamo ad avere gli strumenti per affrontare tutto.